Africa: il dilemma degli aiuti (22 febbraio 2005)
Nel recente forum di Davos, il premier inglese Tony Blair ha rilanciato
l’impegno per una nuova politica di solidarietà con i Paesi poveri
africani. In sostanza, la proposta del Primo Ministro britannico è
quella di costituire una “International Financial Facility”, ossia un
fondo che permetta di aumentare e dare maggiore stabilità agli aiuti
rivolti dall’Occidente all’Africa.
Ben vengano simili iniziative, che quanto meno riportano l’attenzione
dei media su un continente in cui interi popoli continuano a rischiare
l’estinzione, schiacciati dalla fame, dalla povertà più estrema, da
malattie degne degli incubi più macabri.
Quando si parla di drammi di tale portata, l’indifferenza è un crimine
imperdonabile, e la ricerca di efficaci soluzioni è un dovere morale.
Tuttavia, poiché è del sangue versato dagli innocenti che si tratta, e
del futuro di un intero Continente, ogni intervento dovrebbe essere
attentamente riflettuto e ben calibrato, così da fornire una risposta
vera a problemi che dobbiamo risolvere ora o mai più. L’errore, ormai,
non è un lusso che ci possiamo più permettere.
In questo senso, è da condividere quanto affermato dallo storico di
Harvard Niall Ferguson, e cioè che in questo campo bisognerebbe fare
tesoro dell’esperienza precedente. Infatti, il tema degli “aiuti allo
sviluppo” non può certo dirsi nuovo: tra il 1950 ed il 1995 i Paesi
occidentali hanno distribuito all’incirca un trilione di dollari in
aiuti ai Paesi poveri. Nonostante l’imponente sforzo economico, i
risultati, come dimostrato dall’economista Bill Easterly della New York
University, sono stati penosi. La domanda che sorge spontanea è
semplice: perché?
In larga misura, la causa dei deludenti risultati raggiunti finora dal
sistema della cooperazione allo sviluppo sta nel fatto che spesso ai
Paesi beneficiari mancano le istituzioni politiche, legali e finanziarie
per poter utilizzare il denaro in modo produttivo. In queste condizioni,
l’eccessiva attenzione che spesso i “professionisti” della cooperazione
pongono sulla fase della progettualità, del varo dei singoli programmi e
quindi dell’arrivo dei finanziamenti, affidando poi la realizzazione
concreta all’efficienza ed alla buona fede dei Paesi coinvolti,
significa spesso far naufragare tutto ben prima del prodursi di una
qualunque utilità.
In realtà, gran parte del denaro destinato ai Paesi poveri dagli anni
’50 in avanti ha semplicemente preso strade diverse, spesso quelle di
conti bancari svizzeri. Uno studio condotto recentemente su trenta Paesi
africani sub-sahariani ha calcolato che tra il 1970 ed il 1996
l’esportazione complessiva di capitali è stata dell’ordine dei 187
miliardi di dollari; il che significa, se si aggiungono gli interessi
maturati, che le élites africane al governo avevano beni Oltreoceano
pari al 145% dei debiti dei loro Paesi. Gli autori dello studio hanno
concluso che “l’ottanta per cento circa di ogni dollaro preso in
prestito dai Paesi africani riprendeva la via dell’Occidente in forma di
fuga di capitali nello stesso anno”.
Questo non significa, come a qualcuno farebbe comodo credere, che la
soluzione “draconiana” debba essere quella di ridurre gli aiuti allo
sviluppo e lasciare così l’Africa al suo destino. Ma significa
d’altronde che non possiamo più pensare di metterci la coscienza a posto
staccando un assegno.
I grandi problemi dell’Africa, come era prevedibile e come del resto
avviene per ogni problema di grande portata, devono essere risolti
partendo dalle radici. In primis, da un aspetto di governance, di
formazione di una cultura del buon governo e di amministratori capaci e
coscienziosi ad ogni livello nelle istituzioni locali. Senza questa
condicio sine qua non, ogni altro intervento resta inevitabilmente
votato al fallimento.
Inoltre, ogni progetto specifico dovrebbe avere fin dall’inizio una
portata di lungo periodo, ponendo grande attenzione soprattutto alla
peculiare situazione del Paese ove si va a radicare, e dunque alla
concreta efficacia e possibilità di realizzazione. In questo senso,
certo sarebbe opportuno un maggiore coordinamento tra i vari interventi,
sempre numerosi e quindi spesso caotici, sotto i minimo comune
denominatore di un grande e lungimirante piano Marshall per l’Africa, a
più riprese proposto anche da esponenti di spicco del nostro Governo.
Gli operatori della cooperazione allo sviluppo sapranno fare tesoro
degli errori del passato, e correggere il tiro ?
La riforma dell’ONU, una volta completata, sarà un’importantissima
cartina di tornasole per dare risposta a questa domanda, e ci dirà se
finalmente stia sorgendo la volontà autentica di fare qualcosa di
concreto per dare al Continente africano ed alle sue genti quel futuro
che spetta di diritto ad ogni essere vivente.
Il tempo che ci rimane per correggere le storture della storia sta ormai
per terminare: la risposta deve giungere, forte e chiara, senza
ulteriori tentennamenti.