FAO: un'organizzazione da ripensare (25 ottobre 2005)
Si è da pochi giorni conclusa, a Roma, l’Assemblea della FAO, l’agenzia
delle Nazioni Unite il cui nobile scopo è quello di combattere la fame
nel mondo. Si è trattato di un avvenimento senza dubbio importante, con
interventi significativi ed una certa dose di folklore, che quanto meno
ha avuto il merito di sollevare una volta di più agli occhi
dell’opinione pubblica il problema drammatico che coinvolge una
larghissima parte del mondo: luoghi geograficamente vicinissimi ma che
la nostra mente, abituata allo sfrenato consumismo, ha difficoltà
persino a concepire. Luoghi dove bambini innocenti sono costretti a
crescere prima del tempo, e dove l’unica alternativa è morire di fame,
dimenticati dal mondo.
Nonostante l’importanza di questa Assemblea, è impossibile non sentirsi
addosso una sensazione di disagio: è come se, dopo tutto, i conti non
tornassero. Cosa c’è da festeggiare nei 60 anni di questa
organizzazione? Forse soltanto l’ennesimo fallimento dell’Occidente nel
suo tentativo maldestro di fronteggiare un dramma che rischia di
schiacciarlo.
In 60 anni di esistenza della FAO, la fame nel mondo non ha fatto altro
che aumentare esponenzialmente, coinvolgendo un numero sempre maggiore
di Paesi e provocando distorsioni irrimediabili nelle tradizioni, nella
capacità produttiva e nel globale andamento dei tanti Stati colpiti.
Non si può che condividere, in questo contesto, quanto affermato dal
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi all’Assemblea: “una
società che spende centinaia di miliardi in armamenti e consente che
ogni anno muoiano di fame cinque milioni di bambini è una società malata
di egoismo”.
Mai come in questi anni, quel “fardello dell’uomo bianco” di cui Rudyard
Kipling parlava già nel secolo scorso è sembrato tanto pesante. La
natura stessa sembra ribellarsi ad una società che ha perso di vista i
suoi valori, e come una locomotiva impazzita sembra lanciarsi verso il
baratro.
Ogni speranza è dunque persa, e la civiltà è allo sfascio ? Non lo
crediamo. Perché, fortunatamente, il mondo è ancora ricco di tanti
uomini e donne di buona volontà, che rimboccandosi le maniche lavorano
silenziosamente e con umiltà, e riescono quasi miracolosamente ad
incidere in profondità, pur nel loro piccolo, sulle realtà con cui si
vanno a confrontare. Sono persone che restano volutamente nell’ombra, ma
che fanno molto di più di qualsiasi assemblea oceanica a cui la civiltà
dell’immagine ci ha abituati.
Non ci vuole molto, in realtà: basta rifiutarsi di continuare a
sopravvivere nella propria torre d’avorio, attraversando la propria
epoca come sonnambuli, ed ignorando la miseria da cui si è circondati e
la tragedia che si consuma sotto i propri occhi indifferenti. Se sapremo
reagire a questo distacco che ci allontana da ciò che realmente conta,
potremo veramente fare la differenza: ed allora saremo anche noi tra
quelli che sul campo si conquistano il rispetto e la stima di
popolazioni culturalmente distanti ma a cui la comune umanità dovrebbe
legarci a doppio filo, e saremo tra quelli che da sempre gridano da soli
nel deserto nel chiedere una cooperazione internazionale radicalmente
riformata, che sia liberata dalla burocrazia che la attanaglia e vada
davvero a colpire alla radice quei morbi che rendono invivibile buona
parte del mondo.
Le buone intenzioni, purtroppo, da sole non bastano. Serve l’impegno
concreto di tutti, nella consapevolezza che l’apporto di ogni singola
persona è prezioso e insostituibile, e potrebbe essere decisivo.
Diversamente, tra 60 anni saremo ancora allo stesso punto, a festeggiare
un altro anniversario, ascoltando le farneticazioni dei dittatori di
turno: uomini forti di Stati poveri, autoproclamatisi generali ma senza
un esercito alle spalle. In una fiera di vanità, demagogie, istrionismi
e accuse francamente imbarazzanti. Ma saremo anche sempre meno,
arroccati nelle nostre sempre più piccole fortezze dorate e assediati da
una miseria dirompente. Sempre più soli.
E’ questo il mondo che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli?
Spero di cuore che la risposta sia negativa, e che tutti cominciamo,
invece di giudicare il nostro vicino, a rimboccarci le maniche e ad
impegnarci in prima persona. Tenendo a mente ciò che diceva Kipling:
“sono finiti i giochi dell’infanzia. Vi attende ora, quale unica
ricompensa, il giudizio inflessibile dei vostri pari”.