Internazionalizzazione: il ruolo delle comunità italiane all’estero (30
novembre 2005)
Per molti anni il “miracolo italiano” ha fatto apparire il nostro
sistema produttivo, agli occhi degli osservatori economici
internazionali, come, per usare la stessa metafora con cui Galimberti
inizia la sua “Storia dell’economia italiana del ‘900”, il calabrone di
Igor Sikorsky: “il suo peso in rapporto alla superficie alare, rende
impossibile il volo. Per sua fortuna, il goffo insetto ignora le leggi
della fisica, e le vìola inconsapevolmente e mirabilmente”.
Il calabrone è l’immagine della nostra economia, così piccola per
dimensione delle proprie aziende, eppure così grande da conquistare il
mondo. La creatività, l’immaginazione, la fantasia italiane hanno
conquistato i mercati dei più sperduti angoli della Terra.
Ciononostante, l'attuale scenario economico internazionale impone un
riposizionamento del nostro sistema produttivo. Il cambiamento cui siamo
chiamati ad adeguarci non può più prescindere dai principi costitutivi
del moderno contesto economico-sociale: la globalizzazione ed il
progresso tecnologico. Ambedue i processi non sono più reversibili.
Oggi si assiste ad una nuova fase economica in cui le forze attive del
territorio devono concorrere ad una ri-programmazione dello sviluppo,
avente carattere di lunga durata, sostenibilità, equità, creazione di
ricchezza e coesione sociale, privilegiando gli investimenti in
innovazione, ricerca e formazione.
La globalizzazione degli scambi ha prodotto l’insorgere di esigenze e
prospettive nuove, che è necessario cogliere per trasformarle in
sviluppo e produzione di lavoro e ricchezza.
Le sfide del mercato globale stanno mettendo a dura prova i sistemi
industriali e le economie del nostro paese. Attraversiamo oggi un
difficile periodo congiunturale che tuttavia può, se ben gestito,
avviare un processo di selezione, di riqualificazione e di riconversione
dell’apparato produttivo.
Indispensabile a tal riguardo appare dunque incentivare
l'internazionalizzazione delle imprese aiutandole a crescere e fornendo
loro moderni servizi reali. La crescita è infatti indispensabile per
mantenere posizioni di mercato. Restare piccoli significa entrare in un
circolo vizioso che inevitabilmente comporta una regressione, perché
perdere quote di mercato significa fronteggiare difficoltà sempre
crescenti nell'attrarre le risorse necessarie per andare avanti.
Diventare grandi significa invece trascinare dietro di sé la crescita di
un intero agglomerato di imprese che a vario titolo partecipano al
sistema, innescando questa volta un circolo virtuoso.
Tale passo potrà essere affrontato solo attraverso una forte convergenza
tra le Istituzioni e le realtà socio-economiche territoriali, affinché
si possa contribuire, in uno spirito di collaborazione, ad affrontare
insieme le sfide dell’internazionalizzazione, a fare scelte che mirino a
rafforzare la competitività e a valorizzare le imprese e il lavoro.
Questa visione della evoluzione delle relazioni internazionali e la
volontà di individuare un approccio nuovo per valorizzare e promuovere
la presenza degli italiani all’estero indusse la prima Conferenza
Stato-Regioni-Province autonome-CGIE ad esaminare e discutere a fondo,
tra l’altro, le condizioni per favorire la internazionalizzazione delle
imprese, con l’adozione di uno strumento legislativo atto a dare
efficacia e dinamismo al coordinamento delle attività di diffusione, di
informazione, di assistenza alle imprese con la previsione della
collaborazione degli italiani nel mondo.
Il provvedimento auspicato ha visto la luce con l’approvazione della
legge 31 marzo 2005, n. 56 “Misure per l’internazionalizzazione delle
Imprese”, entrata in vigore il 5 maggio scorso, che si pone l'obiettivo
di offrire all'imprenditoria italiana, con gli Sportelli Unici Italia,
nuovi strumenti operativi, di coordinamento e di raccordo, anche se esso
é tuttora non operativo in assenza del Regolamento che definirà le
modalità operative, di costituzione ed organizzazione degli Sportelli
Unici.
Si prende atto con rammarico che è mancato il coinvolgimento delle
comunità italiane all’estero e dei loro organi rappresentativi.
Il CGIE ha più volte messo in rilievo come il “Sistema Italia” non sia
ancora completo, segnalando le difficoltà incontrate dalle imprese
italiane nell’ottenere finanziamenti e garanzie e lamentando la scarsa
attenzione prestata al coinvolgimento ed alla cooperazione con gli
imprenditori di origine italiana attivi nei Paesi di adozione.
Appare ormai giunto il momento di sostenere l’imprenditoria dei
connazionali nei Paesi di accoglienza ed individuare misure di sostegno
affinché vengano analizzate ed utilizzate, in sinergia con le imprese
nazionali, le potenzialità che la diaspora della emigrazione ha creato.
È una richiesta posta sul tappeto con forza da un mondo imprenditoriale
che non solo non vuole essere dimenticato, ma sottolinea la propria
originalità e capacità di impresa.
Gli imprenditori italiani all’estero si propongono come attori di un
universo ove l’italianità non sia solo un sentimento, ma una realtà
concreta, in cui non si faccia distinzione fra italiani in Patria ed
all’estero.
Essi rivendicano il diritto di essere coinvolti nell’individuazione di
iniziative tese ad acquisire spazi di scambio coniugando variamente
know-how delle imprese nazionali e conoscenza del mercato degli
imprenditori all’estero e richiedono un sostegno più efficace del
sistema creditizio per trasformare in ricchezza la creazione di uno
spazio economico comune alle imprese italofone.
Lo sportello unico rappresenta un buon inizio, ma è solo un inizio che
richiede energie e risorse per ottenere a pieno i risultati che si
propone.
Appare evidente la necessità di sburocratizzare le procedure e
diffondere in maniera capillare le strutture e le informazioni,
coinvolgendo le organizzazioni rappresentative dei connazionali e
dell’imprenditoria italiana all’estero.
È pur vero che ci si è già mossi sulla via indicata dal provvedimento
legislativo, sono state infatti create strutture comuni tra Ambasciate e
Uffici ICE all’estero in 33 sedi, mentre in altre 9 tali integrazioni
sono in fase di realizzazione, ma è da sottolineare che per ora esse
sono presenti quasi esclusivamente nelle capitali ed una sola è in
America Latina, a Caracas, mentre un’altra è in via di realizzazione a
San Paolo.
Il lavoro da fare é ancora molto e la situazione impone di muoversi in
fretta rendendo operativo al più presto il provvedimento legislativo più
sopra citato con la emanazione del Regolamento, che era prevista entro 6
mesi dall’entrata in vigore della legge.
Le Regioni sono chiamate ad assumere nel prossimo futuro compiti
crescenti anche nelle funzioni di relazione con le proprie comunità
residenti all’estero.
È possibile che, in concorrenza con lo Stato, abbia origine una
pluralità di interventi e legislazioni che appare opportuno coordinare,
finalizzare, rendere sinergiche, evitando interventi contradditori o
ripetitivi.
Pur nel comprensibile desiderio di ogni Istituzione di dare evidenza
alla propria azione, appare interesse comune che nessuna comunità di
italiani all’estero possa sentirsi trascurata o peggio dimenticata.
Trasformare finalmente il fenomeno della emigrazione in una grande
risorsa appare un progetto ambizioso che dovrà essere perseguito anche
con uno sforzo di fantasia e di immaginazione: tuttavia non vi è dubbio
che per consolidare e realizzare qualsiasi iniziativa sono necessari
investimenti, sia pubblici che privati. Questi ultimi saranno tanto più
incoraggiati quanto maggiore sarà il ritorno in termine di penetrazione
nei mercati e diffusione del Made in Italy.
In presenza di situazioni di particolare vivacità le reazioni debbono
essere estremamente rapide: canalizzare informazioni, coinvolgere
istituzioni, mettere a confronto partners possibili, diventa una
scommessa vincente. La creazione di strutture, temporanee o in alcuni
casi anche permanenti, che, senza sostituirsi a quelle ufficiali, ne
sappiano tuttavia integrare l’azione, evitando inutili protagonismi e
sovrapposizioni non coordinate ad altre istituzioni, deve essere
attentamente analizzata e valutata e pensiamo a strutture quali “Casa
Italia” o le cosiddette “antenne”, cui deve essere attribuita una
accorta ed economica valorizzazione affinché divengano efficaci
strumenti di conoscenza e utilizzazione del marchio italiano e di
cooperazione con l’imprenditoria italiana nei Paesi di accoglienza.
Le nuove emigrazioni infine dovranno essere analizzate e definite: a
nostro parere due flussi migratori relativamente recenti meritano
particolare attenzione, quello seguito ai processi di delocalizzazione
nei Paesi dell’Est europeo e quello ancora più sfuggente, perché spesso
individuale, dei professionisti.
Il primo, determinato da chiari vantaggi di natura economica per le
imprese, deve comunque assicurare condizioni di sicurezza sul lavoro
adeguate ed essere collocato nell’ambito di una politica di sostegno che
salvaguardi un sostanziale equilibrio fra la vocazione mediterranea del
nostro Paese ed una presenza attenta e vivace nell’area balcanica, che
non deve trascurare una penetrazione parallela di cultura, lingua,
progresso sociale, sola capace di garantire un futuro di stabili
relazioni.
Il secondo, spesso trascurato perché difficile da classificare e
monitorare, va invece attentamente seguito e debbono essere individuati
incentivi idonei per spingere gli interessati ad entrare in rete con
strutture di studio e sviluppo nazionali per l’alto valore aggiunto che
tale iniziativa può rappresentare.
Le migrazioni umane rappresentano un fenomeno comune a tutte le epoche
storiche, legato da sempre ai bisogni essenziali dell’esistenza. La
storia dei movimenti migratori travalica i confini di ciascuno stato
inserendosi in un contesto di globalizzazione terrestre.
Tale fenomeno, oggi, per essere ben compreso deve essere analizzato
congiuntamente al sistema formativo locale ed estero. Un tempo si
fuggiva dalla propria terra perché povera di risorse naturali, oggi la
povertà è causa del ritardo di sviluppo. L'obiettivo deve dunque essere
quello di stimolare l'imprenditoria nei paesi arretrati per creare
un’occupazione stabile che possa evitare la continua emorragia di
capitale umano che l’emigrazione da lavoro impone.
Potremo così evitare che nei ricordi di alcuni popoli oggi meno
fortunati ci siano nuove Ellis Island o “isole delle lacrime”.
Nella odierna società della conoscenza, infatti, la crescita di un
territorio è strettamente correlata alla disponibilità di capitale umano
altamente formato. La sua assenza genera un circolo vizioso dal quale è
difficile venir fuori.
Occorre pertanto investire in formazione per aumentare la dotazione di
capitale umano di tali territori, chiave di ogni futura ricchezza e
benessere sociale.
Su questo punto occorre insistere, con politiche più incisive e mirate
per far crescere il livello di reddito, di consumi e della qualità della
vita. Il sistema della formazione deve essere rifondato, centrandolo non
solo sui singoli individui bensì sulla crescita di un vero e proprio
sistema d’impresa. Ciò sarà possibile solo attraverso uno sforzo
concorde di tutte le istituzioni, locali, nazionali ed internazionali.
Occorre infatti migliorare l’attrattività dei territori sia attraverso
l’accrescimento del flusso degli investimenti produttivi, sia attraverso
la capacità di formare le future generazioni.
La conoscenza viene oggi intesa quale principale fattore di produzione
soprattutto in considerazione dell’enorme riduzione dei costi legati
alla raccolta, all’elaborazione ed al trasferimento dei dati che essa
consente. Il mercato oggi richiede continui miglioramenti di processi
spesso legati all’abilità ed alla dimestichezza con la selezione e
l’elaborazione delle informazioni, valorizzando la rapidità e la facile
adattabilità al cambiamento.
Porre in essere un’efficace politica di formazione significa innescare
un circolo virtuoso che si riflette sull’intero sistema in una logica di
trasferimento di conoscenze, informazioni, capacità tecniche,
organizzative, manageriali e di marketing. Viceversa l’insufficiente
disponibilità di capitale umano altamente qualificato spinge il sistema
produttivo a ripiegare su prodotti a basso valore aggiunto tentando una
impossibile competizione sui costi ed avviando così un processo di
declino ed impoverimento economico e professionale.
Gli investimenti produttivi si sviluppano spontaneamente una volta
fertilizzato il territorio. Il benessere di un territorio è dunque
determinato dalla capacità di accrescere ed utilizzare al meglio il
potenziale delle persone, dalla capacità di diffondere la conoscenza e
l’innovazione.
La conoscenza migliora la vita; le idee cambiano il mondo.
Pensate che Einstein avrebbe potuto elaborare le teoria della relatività
speciale senza la conoscenza dei concetti classici di spazio e di tempo
assoluti risalenti a Newton? Così come Oppenheimer non avrebbe forse
realizzato la prima bomba atomica senza gli studi di Enrico Fermi.
Voglio ricordare a tal proposito che lo scienziato statunitense si
rifiutò di partecipare alla progettazione della bomba all’idrogeno dopo
aver visto l’uso che il Potere fece delle sue formidabili scoperte
scientifiche. Non è questa la sede oggi per parlare dell’opportunità di
riconsiderare l’energia atomica come fonte inesauribile di
approvvigionamento energetico, tuttavia questi esempi valgano a far
capire come un moderno e competitivo Paese debba assolutamente evitare
la fuga dei propri cervelli, ma, piuttosto, attrarne di esteri per poter
esportare conoscenza futura.
Le scelte relative alle localizzazioni di attività produttive
manifatturiere classiche, vengono operate sulla base di mere opportunità
economiche e dunque rivolte massimamente dove il costo dei fattori
produttivi è più basso. Ben venga dunque una politica di
delocalizzazione competitiva, tuttavia, le attività industriali ad alto
contenuto innovativo e la produzione di servizi in genere, necessitano
di capitale umano altamente qualificato. Bisogna dunque favorire e
veicolare in patria il naturale passaggio generazionale tra l’hard
technology e la soft technology, tra gli impianti ed il know-how.
Bell immaginava un irrinunciabile passaggio dalla società industriale a
quella post-industriale, in cui si producevano maggiori servizi rispetto
ai beni ed in cui il sapere tecnologico operava il controllo, la
regolazione e la valutazione dei processi. La crescita dei servizi sta
infatti ridimensionando l’industria così come questa aveva fatto con
l’agricoltura nel corso del XX secolo. Tuttavia noi sappiamo che
l’industria è e resterà il fulcro di ciascuna società moderna in ragione
del maggiore valore che essa genera anche rispetto al terziario. Il
post-fordismo trasforma dunque l’industria diversificandola, ma senza
eliminarla. La globalizzazione rende tale processo più veloce e
nonostante le promesse uniformanti, evoca dimensioni locali
sottolineandone le specificità. Alla politica spetta il compito di
governare tale processo preservando e valorizzando le diversità,
attraverso un’interpretazione lungimirante delle esigenze dei territori.
Mi domando dunque se le risorse necessarie per gli interventi
finalizzati alla formazione professionale degli italiani residenti in
Paesi non appartenenti all’Unione europea, saranno assicurate anche in
futuro in relazione all’alto valore sociale delle iniziative così
finanziate.
Non deve sfuggire infatti che la formazione all’estero non può essere
intesa come una concessione, ma un investimento, che i corsi sono un
primo anello nel processo di internazionalizzazione, poiché promuovono
nelle nuove generazioni delle nostre comunità una risorsa umana
qualificata ed idonea ad intraprendere attività produttive all’interno
del “Sistema Italia”.
Vorrei infine concludere con un ultimo dolente capitolo, quello della
Cooperazione.
Un capitolo che richiede solida concretezza e concentrazione degli
sforzi, capacità di coordinamento e chiarezza degli obiettivi.
Combattere fame e malattie, contribuire a migliorare condizioni di vita
sub-umane, sono traguardi da perseguire con continuità, tenacia e
modestia.
A volo di uccello sono stati indicati punti e problematiche meritevoli
di attenzione: essi richiedono il confronto di normative esistenti, la
loro armonizzazione, il coordinamento delle azioni e forse nuove
iniziative legislative.
Sarà un duro lavoro che ci auguriamo possa trovare nella Conferenza
permanente una sede di riflessione per la individuazione di soluzioni
credibili e concrete.