La mia attenzione verso i militari in missione di pace (16 marzo
2006)
A queste elezioni legislative parteciperanno anche i militari impegnati
in missione di pace nelle più svariate regioni del mondo.
La legge relativa all’esercizio del diritto di voto è stata approvata
sul filo di lana del termine della legislatura per evitare che, per
paradosso, fosse loro negato quello che essi garantiscono ad altri con
la loro attività, la loro presenza, i loro sacrifici.
I militari, in effetti, rappresentano una realtà nuova, invero un po’
particolare, nel mondo della emigrazione recente, quella, per
intenderci, composta di tecnici di elevato livello che il nostro Paese
sempre più spesso invia in ogni parte del mondo ed in particolare in
quei Paesi del Terzo Mondo dove più pressanti ed impellenti sono le
richieste di aiuto.
Sono tecnici che, come tutti gli altri loro colleghi, esprimono capacità
di soffrire, intraprendenza, umanità, professionalità profonda e
convinta, capacità intellettuali, ma si contraddistinguono perché
indossano tutti lo stesso vestito, l’uniforme appunto.
Nel mondo esterno si è poco abituati, in effetti, a scoprirli impegnati
in un lavoro fatto di cooperazione, di assistenza, di ricerca paziente
di intese, condotto con serietà, determinazione ed impegno.
Il nostro Paese, deluso da passate esperienze, aveva preferito
dimenticarli. Dimenticare anche che essi, nel corso degli anni, avevano
contribuito a creare, nell’ambito dell’Alleanza Atlantica, quelle
condizioni di sicurezza e serenità che hanno consentito all’Europa
occidentale di svilupparsi e progredire ed all’Italia di vivere il più
lungo periodo di pace dall’unità.
Ed è dal lontano 1949 che essi hanno cominciato ad emigrare, sempre più
numerosi, negli USA e nell’Europa del Nord, nell’indifferenza dei
connazionali e spesso nella diffidenza dei nuovi compagni di lavoro.
Hanno dovuto lavorare duramente per guadagnare la stima ed il prestigio
necessari per attirare l’attenzione sul complesso scenario dell’area
mediterranea, perché fosse chiaro anche ad altri, meno sensibili ai
grandi mutamenti che si annunciavano, che l’asse della instabilità e del
rischio stava spostandosi dalle frontiere orientali dell’Europa a quelle
meridionali, che il tempo delle contrapposizioni frontali, dure e
feroci, ma al tempo stesso chiare nel loro tremendo e minaccioso
significato, stava stemperandosi su posizioni sempre più smussate, che
il pericolo e la minaccia diventavano più subdoli ed insidiosi.
Ed accanto a queste attività più propriamente intellettuali, indirizzate
cioè alla pianificazione dell’uso delle risorse, della realizzazione
delle strutture, dell’impiego del personale e dei mezzi disponibili sono
da inserire quelle attività più propriamente “di cantiere”.
Cominciata con poche persone ed in sordina, sull’onda dell’apprezzamento
meritato e della stima guadagnata, questa attività “di cantiere” è stata
richiesta sempre più spesso al nostro Paese e si è via via estesa, per
il numero dei partecipanti e per le aree interessate.
L’esperienza del Libano durante la guerra civile, nel 1982, ha
consentito di affrontare e risolvere problemi di mentalità, di mezzi, di
addestramento, di fiducia in se stessi.
E da allora i “cantieri” non hanno fatto che aumentare, segno purtroppo
della mancanza di pace in troppe regioni.
Kurdistan, Albania, Bosnia, Kosovo, Afghanistan e da ultimo l’Iraq non
sono che un susseguirsi di “cantieri” aperti ormai da anni per tentare
di dare sicurezza a popolazioni disperate, per distribuire viveri,
medicinali, abbigliamento, ricostruire le infrastrutture, curare i
feriti e gli ammalati, riaprire le scuole, salvaguardare il patrimonio
artistico.
Non dovrebbe esservi dubbio che anche questo personale é parte di quel
fenomeno migratorio che dal nostro Paese ha portato nel mondo tecnici di
elevato livello, capaci e stimati: tecnici senza dubbio di un genere un
po’ particolare, troppo spesso associati al rombo dei cannoni, al
dolore, come se essi fossero soltanto causa e non anche vittime (e come
non ricordare qui il sacrificio dei caduti di Nassirya), spesso
considerati inutili, come pompieri quando non c’è incendio: in comune
con questi ultimi essi hanno la preoccupazione di adottare tutte le
misure possibili di prevenzione per evitare il fuoco e non di appiccarlo
per dimostrare la loro utilità.
Essi, come i tecnici in borghese, danno un’immagine di efficienza,
capacità organizzativa, preparazione professionale importante per
l’immagine del nostro Paese, offrendo, nel contempo, un fondamentale
concorso al mantenimento della pace ed alla ricostruzione in aree
colpite da instabilità con determinazione e fermezza, senza tuttavia mai
dimenticare la loro appartenenza mediterranea, fatta di umanità,
comprensione, abitudine alla convivenza ed al dialogo.
Nel clima italiano di contrapposizione feroce fra le opposte coalizioni
elettorali, che in qualche modo coinvolge il futuro dei vari contingenti
militari sparsi nel mondo, quello che è necessario evitare è dimenticare
ancora una volta questi connazionali, i loro problemi, le loro famiglie.
L’attenzione verso di essi non può esaurirsi al termine della missione:
hanno vissuto per mesi sotto stress, sono stati spesso testimoni di
scene efferate di massacri e distruzione, hanno visto il pericolo e la
morte in mille situazioni.
Proprio per questo il loro rimpatrio deve sempre essere accompagnato da
una adeguata azione di sostegno anche psicologico, per una uscita
graduale e correttamente pilotata da situazioni di stress.
Inoltre è corretto prevedere l’estensione del riconoscimento dei
benefici combattentistici, attraverso nuovi ed adeguati strumenti
normativi, a tutto il personale che ha preso parte ad operazioni di
“peace keeping” anche quando esse si svolgono sotto l’egida di
organizzazioni diverse dall’ONU (ad esempio la NATO, l’UEO, la MFO).
Il mio augurale pensiero va a tutti coloro che con dignità e capacità
rappresentano l’Italia ed garantiscono, in armi, la pace dovunque essa è
in pericolo, con l’assicurazione che le loro giuste aspettative non
saranno dimenticate, una volta terminata l’esigenza.