Un pensiero riconoscente ai missionari (27 marzo 2006)
Durante le campagne elettorali i candidati solleticano gli interessi
delle diverse categorie di elettori promettendo impegno e risorse,
proponendo soluzioni salvifiche alle più diverse aspettative.
In questa occasione, invece, più che sollecitare consensi intendo
rivolgere un pensiero riconoscente ad una particolare categoria di
emigranti, i missionari.
Dovunque essi sono presenti è presente il bisogno: di carità, di
comprensione, di istruzione, di pane.
Essi sono portatori di valori, di una testimonianza di fede: essi ci
ricordano che il nostro prossimo è dovunque, nelle savane, nei deserti,
nelle bidonvilles, nelle periferie delle nostre città.
Le missioni italiane, in particolare, sono state nel passato, e lo sono
tuttora, un punto di riferimento, spesso l’unico, per i connazionali: ad
esse ci si può rivolgere con fiducia, non sollecitano iscrizioni o voti.
Richiamano invece un insegnamento morale, la vita come dono divino dal
concepimento alla morte, la famiglia, un uomo, una donna, dei figli,
come nucleo fondatore e propulsore della società civile.
Le missioni italiane sono state per lungo tempo l’unico legame degli
italiani all’estero con il Paese di origine, negli oratori si riunivano
i nostri emigranti per incontrarsi, per celebrare il Santo Patrono, i
nuovi arrivati ricevevano consigli ed assistenza.
Le missioni costituivano un terreno propizio perché fossero tramandate
tradizioni, lingua, dialetto, costumi, ma i religiosi tuttavia non
perdevano mai di vista la esigenza di favorire una necessaria
integrazione nel tessuto del Paese di accoglienza.
Le associazioni degli emigranti trovavano spesso ospitalità, i
giornalini parrocchiali assicuravano uno scambio di informazioni e
notizie che manteneva vivo lo spirito della comunità.
In periodo di secolarizzazione e di relativismo è facile sminuire
l’attività e la portata delle iniziative delle missioni, che continua ed
è sempre vivace ed attenta a cogliere i mutamenti nella società ed il
sorgere di nuove esigenze, in particolare per i giovani.
Ma al ricordo delle missioni italiane come non associare l’attività
delle missioni nei Paesi meno favoriti del Terzo e del Quarto Mondo,
dove alle difficoltà obiettive dovute alla povertà si associano spesso
la violenza ed il fanatismo.
Ricordo con commozione le focolarine che ad Algeri svolgevano una
silenziosa attività di presenza nelle periferie e fra gli studenti ed
insegnavano il catechismo ai figli dei connazionali, così come i frati
che nel deserto, a Tamanrasset o a El Oued, celebravano le funzioni
religiose in chiesette costruite sulla sabbia, poverissime, ma piene di
fascino e di religiosità.
Ospedali, infermerie, scuole, refettori quante persone sono state
recuperate non solo alla vita, ma anche ad una esistenza dignitosa e
spesso ad una professione.
Ai missionari, dunque, nell’accezione più vasta del termine, voglio
indirizzare, in questo periodo di proclami spesso gridati, un sommesso
pensiero riconoscente, che è sicuramente condiviso da quanti hanno
assistito alla preziosa azione svolta fra le comunità di diseredati e di
bisognosi, non solo di beni materiali, ma anche di istruzione e cultura.